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Pane e Panificazione per la Ristorazione: Profumo della Tradizione

Pane e Panificazione per la Ristorazione: Profumo della Tradizione

Nel mondo della ristorazione, le mode e le tendenze impattano sulle scelte d’acquisto dei clienti ma anche sulle abitudini alimentari e sul modo di concepire e comunicare il cibo.

Dopo il fine dining, la pizza e ora il pane stanno vivendo un momento di gloria. Vediamo di scoprire queste abitudini rinnovate e cosa c’è dietro il Rinascimento del Pane con → Lucia Galasso, nota antropologa alimentare, docente e autrice.

Intervista

Lucia Galasso è antropologa dell’alimentazione. Laureata in Antropologia culturale presso l’Università La Sapienza di Roma, si è poi specializzata con un master in Cultura dell’alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche dell’Università Tor Vergata di Roma.

Studia i processi e le dinamiche sociali connessi alla produzione, preparazione e consumo del cibo, e ai suoi significati socioculturali, economici e simbolici.

È autrice del libro Storia e Civiltà del Pane. Un viaggio tra archeologia e antropologia per Edizioni Espress.

Ci siamo confrontati in altre occasioni, nelle quali ci aveva offerto chiarimenti sull’importanza dell’antropologia alimentare e svelato le opportunità della Business Anthropology.

Oggi ci concentriamo su un tema a noi caro: Pane e Panificazione. La sua storia, il suo utilizzo e la relazione rinnovata con i consumatori. Per questo intervistiamo l’autrice Lucia Galasso.

Buongiorno Lucia e ben tornata. Come evolve il rapporto del pubblico con il cibo? Noti sostanziali differenze rispetto allo scorso trentennio? E come impatta questa rinnovata relazione sul mondo della ristorazione?

Beh, mi sembra un periodo molto interessante, perché mai come ora stiamo assistendo a una doppia realtà del cibo, uno scontro/incontro tra tradizione alimentare e innovazione.

Questo lo osservo molto bene nell’ambito dei novel food e del necessario e inevitabile confronto che l’alimentazione pone di fronte al cambiamento climatico. Le persone rimangono ancorate ai cibi locali, fonte di ricordo e di conforto in un mondo che va sempre più verso la disintegrazione di certi valori, e il cibo ha il valore che sappiamo dargli, è una questione culturale.

D’altro canto ci si rende anche conto che questi cibi rischiano, per quantità, prezzo e qualità di essere accessibili solo alle poche persone che possono permetterseli.

Faccio mia la proposta di Andrea Segrè che parla di un cibo “medio”, nel senso di non troppo alto e non troppo basso in termini di qualità e quantità, accessibile a tutti e in grado di sfamare i circa 10 miliardi di persone stimate per il 2030.

Mi sembra una bella sfida per la ristorazione, no?

Raccontaci, di cosa si occupa un Antropologo Alimentare e quali novità sui tuoi più recenti progetti?

Come antropologa dell’alimentazione studio i comportamenti relativi all’alimentazione (produzione, preparazione e consumo del cibo), contestualizzandoli e problematizzandoli in relazione al contesto storico, religioso ed economico nella nostra e nelle altre culture.

In passato mi sono molto soffermata sull’aspetto affettivo e storico del cibo, approccio che presto mi ha annoiata. Ritengo che l’antropologia debba aiutare a capire e risolvere quanto studia, se necessario, non solo a descriverlo culturalmente.

Il mio nuovo progetto e tema del prossimo libro si concentrerà su un tipo particolare di servizio: quello che il nostro turismo enogastronomico dovrebbe fornire ai “nuovi turismi”, diversi in termini di inclusività e religione, con le relative prescrizioni alimentari (come quello halal, ma non è il solo).

Preparare la ristorazione collettiva e l’hotellerie a questa sfida porterebbe l’Italia a non perdere l’importante opportunità di eccellere anche in questo campo.

Nell’abstract del libro aleggia lo spirito del tuo lavoro, fatto di approfondimenti sul nostro passato per individuare le radici del futuro alimentare. A proposito di scavi archeologici, un recente ritrovamento di un affresco a Pompei ha suscitato una lunga discussione, sembra vi sia ritratta una pizza. Tu cosa ne pensi?

Che il tema delle radici, in ambito gastronomico è un’arma a due lame. Marc Bloch, grande storico, le definiva: «Idolo delle Origini», per sottolinearne l’importanza e ambiguità. Perché da radici si passa subito a un’altra parola altrettanto pericolosa: identità.

Immaginiamo una linea temporale (come suggerisce Massimo Montanari): la parte iniziale sono le radici, quelle che raccontano il passato, ovvero nascita, crescita e sviluppo di ogni realtà. Esse si alimentano allargandosi e nel farlo cercano nutrimento da ogni fonte raggiungibile.

Dall’altro capo della linea troviamo le identità, che abitano il presente, un presente teso al futuro, che fa presto egli stesso a diventare passato.

Ecco, non dobbiamo dimenticare che le identità alimentari (e non) sono il frutto mutevole delle radici, figlie di un tempo storico che le vede continuamente cambiare negli incontri/scontri con popoli, colture e culture.

Viviamo, invece, in un tentativo perpetuo di congelarle, codificarle, musealizzarle per paura di perderle e di perderci noi stessi senza di esse. Facile quindi capire perché una “finta” pizza pompeiana ci esalti, ci conforta in quel senso distorto che abbiamo delle radici.

I recenti aumenti delle materie prime (in primis il grano) – dovuti a instabilità economica e geopolitica, alla crisi climatica e a molti altri fattori – hanno impattato sul costo del pane che è e dovrebbe essere il cibo più democratico. Cosa ne pensi?

Il pane è sempre stato un marcatore culturale e un termometro politico. Oggi abbiamo pani di tutti i prezzi, pani di squisita qualità per materie prime, qualità organolettiche e capacità nutrizionali dall’altro lato pani industriali di bassissimo prezzo e di una qualità praticamente inesistente che hanno l’unico vanto di riempire la pancia.

È tornato in auge il Pane Nero, pasto dei poveri nella civiltà contadina mediterranea, che sognava il pane bianco, morbido e soffice dei ricchi. Si è capovolto tutto, i poveri oggi mangiano pessimo pane bianco e i ricchi ottimo pane nero.

Il pane è cambiato, basti pensare che è diventato il terzo alimento più sprecato dagli italiani, subito dopo frutta e verdura (il 28% del pane viene buttato, secondo l’Osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market).

È assurdo se ci pensiamo, dato che simboleggia vita e ricchezza. Inoltre, era l’alimento più riciclato di quella cucina povera di cui abbiamo così tanta malinconia. Ha perso valore simbolico, ne ha acquistato a livello economico però. È diventato di velocissima deperibilità, va mangiato in giornata, quello del giorno dopo non è più ritenuto buono.

Davvero sono le materie prime il problema?

Cambiamenti climatici e impatto sulla produzione agroalimentare. Quali i tuoi 2 cent?

Personalmente non caldeggio né per il veganismo né il vegetarismo (scelte personali). Ipotizzo, dati scientifici alla mano, una loro necessità (insieme alle tante tecnologie alimentari già disponibili o allo studio) in termini di impatto sociale e climatico, più che altro.

Sono innamorata della tradizione ma ne riconosco lati chiari e lati oscuri, quindi la problematizzo quanto la nostalgia del tempo che fu rischia di renderla un limite e non un’opportunità.

Nessuno ha ancora soluzioni in mano per riuscire a far mangiare, tutti e bene, i miliardi di esseri umani oggi sul pianeta (senza pensare ai futuri, sigh!).

Di sicuro non possiamo più mangiare come fatto finora, semplicemente il nostro pianeta non ce la fa ad alimentare tutti come la classe media occidentale, figuriamoci prospettare un’alimentazione di nicchia tipica dei benestanti. Sarebbe un’alimentazione errata sia a livello etico che qualitativo e quantitativo per le cose che ho menzionato poco sopra.

In passato quelli che noi (forse meglio dire il… marketing) chiamiamo cibi tradizionali o eccellenze erano il retaggio di una cultura della fame: cibi rari per momenti rari (feste del ciclo agrario o del ciclo della vita umana).

Forse tornare a far combaciare il consumo di queste ricette oi cibi a questi 2 cicli, ci permetterebbe di non privarsene del tutto, tornando anche a dare loro nuovamente valore (sacrale).

L’evoluzione – se così si può chiamare – della coltivazione del frumento e di altri frutti/ortaggi dopo gli anni 50, è stata indirizzata verso genetiche facili da lavorare (piante più basse, maggiore resistenza, maggiore resa, facilità nella lavorazione e panificazione) a discapito di altre abbandonate. Questo rinnovato interesse verso i “grani antichi” dove ci porterà?

Intanto chiamiamoli con il giusto nome: grani tradizionali, perché la definizione di grani antichi è una pura operazione di marketing. Detto questo, penso che questa attenzione verso i grani tradizionali ci porterà a una maggiore biodiversità, a un più attento impatto eco-ambientale e alla loro qualità a livello nutrizionale e organolettico.

È un viaggio lungo, ma vedo sempre più persone attente a queste tematiche nei miei giri di promozione del libro. Si torna a dare valore ai cereali, a 360 gradi: mi sembra una bella prova di fiducia per il futuro.

L’impoverimento della biodiversità nel frumento ma anche l’abitudine a prediligere il grano rispetto ad altri cereali (orzo, miglio, farro) ha ridisegnato la mappa agroalimentare, dalla produzione alla somministrazione. Può essere una delle cause dell’aumento di intolleranze e di fenomeni di gluten sensitivity in crescita negli ultimi decenni?

La domesticazione dei cereali ha avuto anche un grande impatto nei processi di metabolismo del cibo della nostra specie.

Il protagonista primario del cambiamento nutrizionale delle nuove società di agricoltori è stato l’amido, il cui adattamento è ancora in corso nella specie umana. La capacità di metabolizzare l’amido fu senza dubbio un vantaggio per i primi agricoltori ma ha anche innescato, nel tempo, l’epidemia di malattie metaboliche che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Le cause vanno ricercate nella presenza sempre più importante di amido nelle farine e le preparazioni industriali. Il nostro metabolismo, come ho accennato, sta ancora abituandosi a digerirlo da 10.000 anni a questa parte: un suo incremento, per lo più irragionevole, di certo non aiuta.

Ultimi consigli ai lettori ristoratori – soprattutto sulla proposta del cestino del pane – che noi riteniamo prezioso e una sorta di biglietto da visita per il nostro ristoratore?

Che torni a essere un gesto di ospitalità, di fiducia, come era in passato. Quel cestino, se contiene un pane fatto con perizia e buone materie prime è un atto bellissimo di accoglienza.

Buon pane fa buona vita, quale migliore augurio da mettere sulla tavola?

Dove possiamo incontrarti o seguirti?

In giro per l’Italia a promuovere il mio libro, sui miei canali social (Facebook e Linkedin) e attraverso il mio sito web.

Spero di incontrare ancora i tuoi lettori qui sul blog. Arrivederci al prossimo argomento…

Conclusione

Ringraziamo Lucia che ci ha nuovamente aperto la porta sul mondo dell’antropologia applicata al food. Parla direttamente con l’esperto, per richiedere ulteriori approfondimenti e segnalaci temi che gradiresti affrontare e approfondire oppure, se vuoi, raccontaci la tua esperienza.

Non perdere i nostri appuntamenti editoriali e gli approfondimenti dal mondo del food e dell’accoglienza ristorativa, in prossimità della stagione autunnale, densa di opportunità ma anche di rischi all’orizzonte. Riusciremo ad accompagnare il lettore verso un vero e proprio Re-start della ristorazione italiana? Scoprilo con noi. Se lo preferisci, iscriviti e segui la nostra newsletter.

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a cura di

Nicoletta Polliotto

Chef di Cucina per Muse Comunicazione®, Web Media Agency specializzata in analisi, pianificazione e realizzazione di progetti di promozione on-line per il Food&Wine, il Turismo e le PMI.

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